LA NOBILTA' E LE BUONE MANIERE
Di Angela Valenti Durazzo

 

Nella nobiltà, in Liguria come altrove, la “dolcezza de' costumi e la convenevolezza de' modi e delle maniere e delle parole”, come anche l'arte del ricevere e dell'organizzare “banchetti”, ai quali è stata legata la celebrazione del potere di molte dinastie, restano un tema sempre attuale e da tramandare alle giovani generazioni.

Il termine italiano 'maniere', riporta S.Mennell sulla Treccani (Enciclopedia delle scienze sociali, 1996) ad un primo livello semantico si riferisce “alle forme esteriori che definiscono il comportamento socialmente accettabile in una cerchia sociale: il modo in cui vanno tenuti coltello e forchetta a tavola, l'obbligo per il gentiluomo di tener la porta aperta alle signore, le formule di cortesia con cui ci si rivolge alle persone, ecc. A un livello meno superficiale il concetto connota spesso standard di condotta, di sensibilità e di moralità profondamente radicati”.

Le buone maniere dovrebbero dunque rappresentare non tanto l'applicazione di una serie di formalismi, o la mera connotazione di un gruppo sociale privilegiato, quanto una spia di quell'insieme di valori che contraddistinguono nei secoli la nobiltà. Sine virtute nulla nobilitas, recita, fra i tanti motti ispirati a questo tema, quello dei De Ferrari di Genova.

Ma tralasciando le virtù e l'orgoglio dinastico ci limitiamo a riproporre qualche indicazione tratta da testi antichi e moderni iniziando con gli “obblighi” nell'abbigliamento in voga tra le dame alla fine Ottocento (Il Galateo della Moda in Dalla Culla all'altare. Scene di vita femminile della Belle Époque), catalogo a cura di Troncatti V. della mostra - Palazzo Bianco, Genova 2008).

La nobildonna “al mattino, appena alzata - riporta il catalogo dell'esposizione genovese - ha la veste da camera o vestaglia, che tiene soltanto fino all'ora di colazione, dove si presenta con l'abito da casa o da mattina, sufficientemente ornato e 'aggiustato alla persona per poter ricevere chiunque si presenterà'. Se resta in casa non indossa il busto steccato ma una fascetta confortevole che la sostiene senza stringerla. La pettinatura mattutina rialza i capelli sotto una reticella civettuola, oppure li lascia liberi. Per il pranzo, il pomeriggio e la serata in casa sono previste naturalmente tre diverse vesti da interno; l'acconciatura è appropriata secondo la moda. Se non si esce l'abbigliamento deve essere sempre accurato 'affinché il visitatore occasionale possa sempre riconoscere la padrona di casa e non la confonda con la cameriera', ma semplice e dai colori non vistosi, onde non oscurare le toilette di eventuali invitate: ostentare un'eccessiva eleganza, preziosi gioielli o pizzi di valore in casa propria verrebbe aspramente criticato dalle malelingue, che potrebbero pensare non si abbia altre occasioni per sfoggiarli”. Inoltre “se si prevede di uscire sarebbe meglio comunque cambiarsi il vestito all'ultimo minuto, per non comparire in abito da passeggio o redingote tra le mura domestiche”.

Non meno impegnative, facendo un salto indietro nel sedicesimo secolo, le norme sul comportamento e sui costumi elencate dal celebre monsignore e letterato Giovanni Della Casa, autore del Galateo, opera la cui valenza sociale è ben più ampia rispetto alle singole regole “di creanza” in essa contenute (sulla biografia si veda Notizie intorno alla Vita ed alle Opere di M. Giovanni della Casa scritte dal Sig. Abate Gio. Battista Casotti, accademico fiorentino, e poste in fronte alla Edizione fatta in Firenze da Giuseppe Manni l'anno 1707). Grazie a queste indicazioni il nipote, a cui il breve trattato era destinato, avrebbe potuto “tenere la dritta via” con “salute dell'anima” e con “laude e onore della sua onorevole e nobile famiglia”.

E se anche se alcune di queste, come si legge nel saggio introduttivo di R.Romano “possono, oggi, sembrare banali: così, per esempio, il suggerire di lavarsi le mani prima di mettersi a tavola o il mangiare evitando di produrre bizzarri rumori o offrire da bere in un bicchiere già usato dall'offerente. Tutto ciò risponde a criteri diventati ovvi, ma che tali non erano durante la prima metà del XVI secolo”.

Ecco alcuni comportamenti disdicevoli secondo il nobile prelato, il cui libro è divenuto sinonimo di etichetta e di bon ton. Partiamo dallo sbadiglio in pubblico, vero schiaffo morale ieri come oggi, per chiunque tenga un discorso o dia sfoggio di eloquenza nei salotti. Ebbene secondo Della Casa è necessario “fuggire questo costume, spiacevole agli occhi ed all'udire ed allo appetito; perciocché usandolo non solo facciamo segno che la compagnia con la quale dimoriamo ci sia poco a grado, ma diamo ancora alcun iudicio cattivo di noi medesimi, cioè di avere addormentato animo e sonnacchioso”. Inoltre “male fanno similmente coloro che, ad ora ad ora, si traggono una lettera dalla scarsella (dalla tasca) e la leggono”.

E certo il monsignore se fosse vissuto nell'epoca di Steve Jobs e Mark Zuckerberg avrebbe allo stesso modo condannato chi, invece di una lettera dalla tasca, avesse più modernamente estratto lo smartphone, o telefonino multimediale, nel bel mezzo di una conversazione o di una cena. Non è tutto: “Non si deono ancor tener quei modi che alcuni usano, cioè cantarsi fra' denti o sonare il tamburino con le dita o dimenar le gambe; perciocché questi così fatti modi dimostrano che la persona sia non curante d'altrui”. Se tamburellare con le dita è un comportamento “storicamente” sconsigliato, altrettanto lo è toccare insistentemente il braccio del proprio interlocutore, poiché l'uomo “quando favella, non dee punzecchiare altrui col gomito, come molti soglion fare ad ogni parola, dicendo: - Non dissi io vero? Eh voi? Eh messer Tale? ”.

Moltissime anche le indicazioni di stile a cui deve attenersi il signore a tavola. La necessità di tenere una conversazione armoniosa accomuna il Galateo con alcuni autorevoli testi precedenti e successivi. Per cominciare non bisogna arrabbiarsi durante il pasto poiché “non istà bene che altri si adiri a tavola”, né “istà bene di contristare gli animi delle persone con cui favelliamo, massimamente colà dove si dimori per aver festa e sollazzo e non per piagnere”. Vietato inoltre pavoneggiarsi, ostentare gioielli in eccesso esibendo “intorno al collo tante collane d'oro e tante anella in dito e tanti fermagli in capo e su per li vestimenti appiccati di qua e di là che si disdirebbe al sire di Castiglione”; tantomeno fare accenno al proprio alto lignaggio: “Né dee l'uomo di sua nobiltà né di suoi onori né di ricchezza e molto meno di senno vantarsi”.

Ma neppure l'atteggiamento opposto è segno di educazione. “Sappi - dice infatti Giovanni Della Casa al giovane destinatario dell'opera - che coloro che avviliscono se stessi con le parole fuori di misura e rifiutano gli onori che manifestamente loro si appartengono, mostrano in ciò maggiore superbia che coloro che queste cose, non ben bene loro dovute, usurpano”.

Restando sempre sul tema dell'etichetta a tavola è istruttivo scorrere alcune delle cinquanta regole di cortesia stilate addirittura nel tredicesimo secolo da frate Bonvesin da la Riva (De quinquaginta curialitatibus ad mensam) che traduciamo dal volgare.

Escludendo comportamenti oggi scontati, il buon frate raccomandava: “Colui che usa per appoggio la mensa, non è uomo gentile se vi appoggia i gomiti o vi tiene distese le braccia” (sesta cortesia); “Non mangiare né troppo né troppo poco, ma con moderazione. Chi mangia troppo o troppo poco, non ha alcun utile per l’anima o per il corpo” (settima); “Che Dio ci aiuti a non riempire troppo la bocca e non mangiare troppo in fretta; I'ingordo che mangia in fretta, e si riempie la bocca, se venisse interpellato, farebbe fatica a rispondere (ottava); “Anche se non desideri bere, se qualcuno ti porge la coppa, accettala sempre; quando l’hai ricevuta, la puoi deporre subito, oppure offrirla a qualcun altro in tua compagnia” (tredicesima). “Quando sei in un convivio, anche se c’è buon vino in tavola, bada a non ubriacarti. Chi si ubriaca in malo modo, fa male tre volte: nuoce al corpo e all’anima e consuma male il vino” (quattordicesima). “Non raccontare brutte storie, affinché coloro che ti sono accanto non mangino di mala voglia” (trentottesima).“Non riempire troppo piatti, scodelle e bicchieri. In ogni cosa occorre misura e modo: l'eccesso non è cortese” (quarantaquattresima).

Venendo finalmente ai nostri tempi Caterina Reviglio Sonnino nel libro Madame est servie (Liber Faber, 2012) ci indica, fra i molti autori (si veda anche Turnaturi, G., Gente perbene. Cent'anni di buone maniere, Milano 1988) le moderne regole dell'etichetta a tavola.

Chi invita, innanzitutto, non deve far notare segni di stanchezza per non mettere a disagio gli ospiti sollecitandoli ad accomiatarsi; deve adottare uno stile nell'abbigliamento semplice e raffinato, con pochi gioielli (come già indicava Della Casa) e trucco, per non mettere in imbarazzo le ospiti con inutili rivalità; non deve lasciare che la conversazione si esaurisca, pur senza sfinire gli ospiti con chiacchiere inutili, avendo l'accortezza di cambiare discorso nel momento in cui può nascere una discussione». Per l'invitato, invece, la puntualità è uno degli «obblighi» principali. Mai, però, arrivare in anticipo, per non mettere in imbarazzo la padrona di casa alle prese con i ritocchi dell'ultimo momento (è tollerato un ritardo di 10 minuti). Mai arrivare con un mazzo di fiori, che deve invece essere inviato prima della cena, oppure il giorno successivo, poiché determina la sistemazione nel vaso. Al momento dell'invito non è elegante informarsi su chi siano gli altri invitati. Se all'ultimo momento si deve rinunciare all'invito già accettato, è buona prassi inviare ugualmente i fiori alla padrona di casa con un biglietto. Nei pranzi formali la padrona di casa è la prima a sedersi a tavola, gli uomini invece si siedono dopo le signore. Gli ospiti non devono rivolgersi direttamente al personale (possono farlo solo al ristorante), né monopolizzare la conversazione o parlare di vicende troppo personali. Non devono eccedere nei complimenti, mangiare a piccoli bocconi, come già nel 1200 raccomandava Bonvesin da la Riva, in modo da potersi inserire nella conversazione. L'invitato non si alza mai. Può chiedere se serve aiuto solo se si tratta di pranzi informali, senza personale e senza insistere se colei che invita non accetta. Dopo la cena ci si accomoda in salotto dove sarebbe bene trattenersi un'ora e mezza al massimo prima di accomiatarsi. Il giorno dopo la cena è buona norma ringraziare con una telefonata o un bigliettino.

Molte delle “regole” elencate, anche se in taluni casi ci fanno sorridere, sono dunque giunte fino ad oggi, pur evolvendo ed attraversando tempi caratterizzati dall'informalismo e dalla permessività, mostrandoci poi, in definitiva, quanto sia antico il nuovo.

 

Copyright